
Kiter e velisti si guardano in cagnesco e non si sopportano. Non è solo questione di attrezzature, capacità di galleggiamento, propulsione a vela e altre sottigliezze tecniche a renderli distanti. Ma il loro universo di riferimento: le origini, il linguaggio, lo stile. Soprattutto è diverso l’approccio all’acqua, al mare e ai suoi confini. I kiter sono come i pirati. I velisti sono i marinai “chic”.
Tra il kitesurf e la vela non scorre buon sangue. Da una parte ci sono i rider, liberi, spassionati, amanti della beach life, dall’altra i velisti, orgogliosi, un po’ spocchiosi e romantici. Si sono sempre guardati in cagnesco. In realtà soprattutto perché non si conoscono bene. Certo, in alcuni casi c’è una sorta di osmosi con velisti che decidono di imparare il kite e viceversa, kiter che cominciano a salire in barca, anche solo per andare a cercarsi uno spot ventoso o fare un kite safari in catamarano. Però i due mondi sono piuttosto distanti.
In realtà è l’universo di riferimento a essere lontano. Il kitesurf è una disciplina relativamente giovane, fa parte degli sport da tavola, si è sviluppata nelle isole Hawaii, come dire la “Mecca” dei water sports. La vela nasce con la civiltà, è legata alla tradizione nautica, alla marineria, è un mondo antico in cui dentro c’è tutto: il viaggio, l’uomo, la storia, l’esplorazione, la scoperta, i traffici commerciali. Solo dopo la vela è diventata sport, vacanze in barca, regate, Coppa America, giri del mondo a tempo di record.
I kiter si sentono surfisti, non velisti
I primi praticanti di kitesurf sono stati i surfisti, curiosi di sperimentare nuove possibilità di cavalcare le onde. Non è un caso, perché il kitesurf, mettetevelo in testa, nasce dal surf. È una sua evoluzione. Lo dice la parola stessa. Il kite si porta dietro la cultura del surf e della beach life. La religione dei kiter è cercare il vento, la libertà, la velocità, l’amore per le onde, i viaggi, le estati senza fine, i codici di una tribù che parla la stessa lingua, condivide gli stessi riti e vive le stesse suggestioni.
Da qui nasce il corto circuito del kitesurf con la vela. E non sto parlando dei riconoscimenti ufficiali, delle federazioni, delle etichette appiccicate a una disciplina per esigenze di marketing, di business o di inquadramento istituzionale, pure legittimo. Parlo proprio di spirito. Il kiter medio non si sente un velista. Non sa nulla di vela, di navigazione, di cultura marinaresca. Non gliene frega nulla. L’unico nodo che sa fare è la bocca di lupo per connettere le linee della barra al kite. Stop. Le andature che conosce sono risalire il vento o scendere giù con il vento, basta. Il kiter non è nemmeno un marinaio. Il suo orizzonte non è il mare aperto, lui naviga, anzi plana a tutta velocità, quasi sempre a ridosso della costa, anzi spesso a un metro dal bagnasciuga dove gli piace compiere salti mozzafiato per stupire le ragazze in bikini. Il kiter è un un coatto del mare. Per lui i velisti sono persone snob che navigano col Gps, fanno l’aperitivo al circolo e usano la barca come la villa al mare.
Il mare per un kiter è solo un parco giochi
La popolarità del kitesurf negli ultimi anni ha attirato persone di qualunque tipo: surfisti, windsurfisti, gli stessi velisti curiosi e senza peli sullo stomaco. Ma anche gente che prima se ne stava in spiaggia a prendere il sole con l’Ipod nelle orecchie e che magari malediceva il vento perché li costringeva a chiudere l’ombrellone. Queste persone diventate kiter vedono il mare solo come un parco giochi. Certo, lo rispettano, perché le mazzate le prendono anche loro se qualcosa va storto, ma non c’è compiacimento da lupi di mare in questo. E poi ci sono sempre i laghi, le lagune o i delta dei fiumi dove sfogare la passione per il vento senza lo stress del marinaio. Solo un pugno di kiter ha un approccio tecnico, marinaresco in senso lato alla disciplina: gli atleti, gli amanti dell’endurance, chi usa il kite per navigare ed esplorare le coste o battere i record di lunga distanza.
Ecco perché velisti e kiter si guardano in cagnesco. E non è solo questione di attrezzature, capacità di galleggiamento, propulsione a vela e altre sottigliezze tecniche. È diverso l’approccio all’acqua, al mare e ai suoi confini. Il kiter è un ribelle, il velista è un gentiluomo del mare.
È la vela a volere il kitesurf, non il contrario
Oggi i rapporti tra vela e kitesurf sono migliorati nel senso che almeno ufficialmente il kitesurf è stato riconosciuto come disciplina velica. È una scelta interessata, a dirla tutta, perché il kitesurf ha portato una ventata di aria fresca nel mondo velico: gente nuova, soprattutto tanti praticanti che continuano a crescere ogni anno, ma anche ricerca, progettazione, sviluppo di materiali, mercato, visibiltà. Se tutto va bene il kitesurf nel giro di qualche anno diventerà sport velico olimpico. Intanto lo è già a livello giovanile, quindi la strada è abbastanza spianata. Non è il kitesurf che si è avvicinato alla vela, però, ma è quest’ultima che per i suoi interessi ha deciso di mettere da parte il suo orgoglio e a denti stretti aprire le braccia al nuovo arrivato. Speriamo per non stritolarlo, come ha fatto con il windsurf.
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Kitesurf: tante discipline, un solo amore per il vento
In verità non cambia molto per i kiter se il kitesurf diventerà disciplina olimpica. Perché alle Olimpiadi andrebbe in scena una rappresentazione minima di cosa è realmente questo sport. Nel kitesurf ci sono tante discipline: Racing, Hydrofoiling, Speed, Freestyle, Wave, Big Air, Freeride, Strapless Freestyle, etc. Il che vuol dire attrezzature e materiali diversi, differenti approcci e filosofia. Ai Giochi Olimpici ci sarà un surrogato di tutto questo. Insomma aria fritta.
I kiter nel mondo sono circa 1,5 milioni e ognuno ha la sua motivazione e un’unica, intima connessione con questo sport. Per molti a dirla tutta il kitesurf non è nemmeno uno sport, ma un bisogno vitale, come respirare. Per alcuni è come una droga, da cui si sviluppa un ciclo di dipendenza-astinenza. Per quanto diverso può essere l’approccio a questa disciplina quello che è certo è che i kiter sono spiriti liberi, fuori dalle regole. Sono come i pirati. Ecco perché si sentono figli di un mondo a parte, che chi non ha mai alzato un kite in cielo e iniziato a planare, sinceramente non potrà mai capire.